Linguaggio e pensiero totalitario

Adolf Hitler. In "Mein Kampf" spiega che una propaganda per essere efficace dei basarsi su pochi punti essenziali e ripeterli il più spesso possibile sotto forma di frasi fatte:

"[...] i suoi effetti devono sempre essere rivolti al sentimento, e solo limitatamente alla cosidetta ragione. [...] La ricettività della grande massa è molto limitata, la sua intelligenza mediocre, e grande la sua smemoratezza. Da ciò ne segue che un apropaganda efficace deve limitarsi a pochissimi punti, ma questi deve poi ribatterli continuamente, i finché anche i più tapini siano capaci di raffigurarsi, mediante quelle parole implacabilmente ripetute, i concetti che si voleva restassero loro impressi."  (A. Hitler, Mein Kampf, parte I; trad. it. Hitler, La mia vita, Milano, Bompiani, 1939, pp. 195-196)

D’altronde Hitler come Mussolini si rifacevano al noto testo di Gustav Le Bon (Psicologia delle folle - 1895) nel quale venivano descritte le strategie e gli artifici retorici per il perfetto capopopolo, tra cui ricordo: semplicità del lessico e della sintassi; l’affermazione concisa, categorica e autorevole; la ripetizione; le vivide immagini suscitate dal discorso.

E, in effetti, ciò si riscontra nelle sette che sviluppano un gergo dove l'infinita varietà del mondo viene compressa in frasi brevi, fortemente riduttive e dal suono definitivo, facilmente memorizzabili e facilmente esprimibili. Ci sono termini "buoni", che rappresentano l'ideologia del gruppo, e termini "cattivi", per rappresentare qualsiasi cosa esterna che deve essere rifiutata. Il linguaggio totalitario è un gergo di forte divisione, molto chiuso, spietatamente valutativo nei confronti dei diversi.

Il linguaggio perciò come costitutivo del sociale. Una comunità si sviluppa e si delimita anche tramite la creazione di un gergo a essa peculiare: <<La socialità si sviluppa nella dimensione linguistica, ogni pratica sociale acquista senso nel "linguaggio" che accomuna e caratterizza l'aggregato sociale in cui essa accade" (Giorgio De Michelis, "Osservazione del sociale e autoreferenza", in Attraverso Bateson,  Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p.

Il nuovo sé, la personalità del culto, viene a situarsi nella profonda esperienza interattiva di comunicazione e relazione all'interno del gruppo.

Il gergo del gruppo serve anche a dissociare la nuova personalità del culto da quella vecchia e ad allontanare l'adepto dagli "esterni" incapaci di comprendere il suo strano linguaggio.

Per questo la nuova personalità non è astraibile e non esiste al di fuori della relazione, al di fuori del contesto in cui si situa, al di fuori della comunità linguistica a cui appartiene, potremmo dire che è una qualità emergente. Al contempo però, anche i contesti relazionali non potrebbero avere luogo senza gli individui che li pongono in essere e che contribuiscono a mantenerli in costante co-creazione.

Lo stesso Freud anticipa questo concetto in Psicologia delle masse e analisi dell'Io: "Nella vita psichica del singolo l'altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in questa accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al contempo stesso fin dall'inizio psicologia sociale." (Giorgio De Michelis, "Osservazione del sociale e autoreferenza", in Attraverso Bateson,  Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 261)

Sempre a proposito del linguaggio, lo psichiatra Mario Di Fiorino fa notare (Mario Di Fiorino, "Dianetics-Scientology e il midrash del lavaggio del cervello, in Le sette religiose, Editrice Ancora, 1996 Milano, p. 73) come l'uso di un linguaggio gergale sia capace di determinare tre importanti effetti psicologici:

1. Il gruppo si sottrae all'approfondimento dottrinale esercitato indipendentemente (<<si mantiene "protetto" ciò che viene detto, per lasciarlo comprendere agli iniziati>>);

2. La chiusura del gruppo verso gli "esterni" pone il neofita in uno stato di soggezione e di dipendenza;

3. La manipolazione dei significati originari e la creazione di nuovi vocaboli privano il "neofita" dei punti di riferimento abituali e determinano l'insorgere di un nuovo modello del mondo che garantisce l'appartenenza a una communitas speciale e diversa.

Il solo fatto di possedere un linguaggio e una dottrina incomprensibile per gli "esterni" garantisce già una soddisfazione narcisistica, l'adepto si ritiene detentore di una verità segreta e preclusa a più che lo rende immediatamente superiore.

Per questi motivi, spesso, la costituzione di una "neolingua" va di pari passo con la costituzione di uno stato totalitario. La "Verità" di cui è la setta è portatrice viene venduta come una visione "scientifica' del mondo, è dunque incontestabile.

A questo proposito è quanto mai illuminante la descrizione che Orwell da della Neolingua usata dal Grande Fratello, nel suo famoso romanzo 1984 (George Orwell, 1984, Oscar Mondadori, 1989 Milano, pp. 315-316):

"Fine della Neolingua non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing, ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata, e l'Archeolingua, per contro, dimenticata, un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso. Il suo lessico era costitutito in modo tale da fornire espressione esatta e spesso assai sottile a ogni significato che un membro del Partito potesse desiderare propriamente di intendere. Ma escludeva, nel contempo, tutti gli altri possibili significati, così come la possibilità di arrivarvi per metodi indiretti. Ciò era stato ottenuto in parte mediante la soppressione di parole, ma soprattutto mediante la soppressione di parole indesiderabili e l'eliminazione di quei significati eterodossi che potevano essere restati e, per quanto era possibile, dei significati in qualunque modo secondari. [...] La Neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero; si veniva incontro a questo fine appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole."

Questa manipolazione del linguaggio si realizza in ogni dittatura che si rispetti, prendiamo per esempio ciò che scrive un dissidente russo come Valdimir Bukovskij: "A correzione della propria svista, le autorità con decreto speciale del Presidium del Soviet Supremo dell'URSS del 16 settembre 1966 introdussero l'articolo 190-3.
Nel pieno spirito dell'ipocrisia sovietica l'articolo non menzionava neppure la parola "manifestazione", ma in esso si parlava dell'"organizzazione (o partecipazione attiva) di azioni di gruppo tali da turbare l'ordine pubblico, o accompagnate da una palese disubbidienza alle legittime richieste dei rappresentanti del potere, o tali da sconvolgere il funzionamento dei trasporti pubblici, delle istituzioni e imprese statali". Vallo a dimostrare che in URSS le libere manifestazioni sono vietate! Menzogna, calunnia! È vietato soltanto turbare l'ordine pubblico. [...] In base ad esso non solo le manifestazioni diventavano un reato, ma anche gli scioperi ("o tali da sconvolgere il funzionamento dei trasporti pubblici, delle istituzioni e imprese statali"). Per tutto questo spettavano tre anni di reclusione." (Vladimir Bukovskij, Il vento va, e poi ritorna, Feltrinelli, 1978 Milano, p. 261)

La teoria della relatività linguistica considera il linguaggio non come un mero strumento ma come una struttura capace di forgiare la nostra visione del mondo. Il significato di una cosa non le è intrinseco come spesso riteniamo, ma le è conferito a partire da un atto arbitrario dell'uomo che associa un significante a un significato, in tal senso il significato e quindi la cornice entro la quale vengono percepiti gli eventi è creazione dell'attività simbolica umana.

In effetti potremmo dire che "Il nostro è un mondo i cui confini sono dati dal nostro linguaggio. Non solo parliamo la nostra lingua, pensiamo in essa come un pesce vive nell'acqua. In genere vediamo il mondo come il nostro linguaggio ce lo fa vedere" (Garret Hardin, The Threat of Clarity, <<Etc.>>, XVII, 3, 1960, p. 269)

 

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