Ordeal Therapy

Questa forma di intervento parte dal presupposto che il sintomo consente al paziente di conquistare una posizione di vantaggio nelle sue relazioni. Se vogliamo eliminare il sintomo occorre creare un contesto in cui il sintomo diventa un elemento di svantaggio.

Un tocco di comportamentismo
Il principio di estinzione del sintomo afferma che se in una determinata situazione un soggetto emette una risposta che in precedenza veniva rafforzata e tale risposta non è seguita da una conseguenza rinforzante, allora esistono meno probabilità che in futuro quella persona riproponga la medesima risposta.

Nella Ordeal Therapy inoltre si associa alla "mancata ricompensa" una punizione seguendo un altro principio del comportamentismo: "se, in una data situazione, qualcuno fa qualcosa che è immediatamente seguito da uno stimolo punitivo, allora è meno probabile che quella persona faccia la stessa cosa quando successivamente incontra una situazione simile." (Garry Martin, Joseph Pear, Strategie e tecniche per il cambiamento, McGraw-Hill, 2000, p. 182)

Occorre ricordare che il controcondizionamento è molto più efficace se contemporaneamente alla estinzione della risposta precedente viene rinforzato un comportamento alternativo.

I principi e tecniche del comportamentismo potranno essere ritrovati in vari interventi di Erickson. Per esempio: "Un'altra paziente soffriva di claustrofobia. Non riusciva a sopportare di stare chiusa in una piccola stanza. Quand'era bambina, sua madre le aveva inflitto una punizione facendola entrare nello sgabuzzino della cantina, chiudendo la porta, e poi, producendo un rumore coi tacchi sull'asfalto come se si stesse allontanando, la lasciò lì. [...]
Le chiesi perciò di sedersi nell'armadio del mio studio. "Lo farò solo se la porta rimane spalancata", disse.
"E supponga che la porta, invece di essere completamente spalancata", dissi io, "sia tutta spalancata meno un millimetro".
Fu d'accordo. Stette nell'armadio con la porta completamente spalancata meno un millimetro. E poi aumentammo fino a due millimetri, a tre millimetri, a un centimetro e mezzo, tre centimetri. [...] Scoperse di essere a suo agio anche quando la porta era aperta solo per un centimetro e mezzo, e lei teneva la mano sulla maniglia. Alla fine la chiuse, e scoperse di poter vivere e respirare in quell'armadio con la porta chiusa, purché tenesse la mniglia in mano.
Allora suggerii che avrebbe potuto provare a guardare attraverso il buco della serratura. Dato che poteva vedere fuori attraverso il buco, non aveva più bisogno di aggrapparsi alla maniglia." (Milton H. Erickson, La mia voce ti accompagnerà, Astrolabio, Roma 1983, p. 105-106)

Questa tecnica si avvicina alla procedura dello Shaping usata nella terapia comportamentale per sviluppare comportamenti che non fanno parte del repertorio dell'individuo.
Per effettuare lo Shaping occorre identificare una risposta utilizzabile come punto di partenza e quindi giungere al comportamento desiderato per piccole approssimazioni successive rinforzando le risposte che vanno nella direzione desiderata.

Esempi:

1. Nel caso di un insonne:

"Erickson sapeva che viveva solo col figlio, che non amava fare i lavori di casa e in particolare odiava mettere la cera perché gli dava fastidio l’odore. Erickson gli prescrisse di andare a casa e di prepararsi per andare a dormire alla solita ora, alle 8; però invece di andare a letto egli doveva dare la cera ai pavimenti per tutta la notte. Alle sette del mattino doveva smettere, far colazione e andare a lavorare come al solito. La notte successiva, dopo avere lavorato per tutto il giorno, doveva ripetere la prescrizione e così per altre due notte di seguito; in questo modo avrebbe rinunciato a otto ore di sonno visto che in genere dormiva solo un paio d’ore per notte.

Il paziente andò a casa e coscienziosamente diede la cera ai pavimenti per tre notti di seguito. La quarta notte si disse che era veramente stanco di "eseguire gli ordini di quel pazzo di psichiatra" e tuttavia si era impegnato a rinunciare ancora a due ore di sonno e quindi doveva continuare. Decise che si sarebbe comunque riposato solo per una mezz’ora. Si svegliò alle 7 del mattino seguente. La sera successiva si trovò di fronte al dilemma: dormire o dare la cera come aveva promesso? Decise di andare a letto alle 8 e di alzarsi per dare la cera se alle 8 e 15 era ancora sveglio. Un anno dopo continuava a dormire profondamente ogni notte, dicendo che non osa più soffrire di insonnia perché, se non si addormenta immediatamente, deve passare la notte in piedi a dare la cera. Erickson commenta: "Sapevo che quell’uomo, pur di non dare la cera, avrebbe fatto di tutto, perfino dormire"" (Jay Haley, Le strategie della psicoterapia, Sansoni, p. 87)

2. "Riverenze", (un racconto di Milton Erickson)

Il primo anno che passai alla Wayne State Medical School, successero due cose buffe. Nella mia classe c'era una ragazza che era stata in ritardo a tutte le lezioni del liceo. Era stata richiamata dagli insegnanti, e aveva sempre promesso con molta grazia che la volta successiva sarebbe arrivata in orario. E si scusava con tanta sincerità. Fece tardi a tutte le lezioni al liceo, eppure aveva sempre ottimi voti. Era così piena di scuse, così piena di credibili promesse.
All'università, a tutte le lezioni fu in ritardo, reguardita per questo da ciascun istruttore e professore. Lei si scusava sempre con grazia e sincerità, e prometteva sempre di fare meglio in futuro, e continuava a fare tardi. [...]
Il mio primo giorno arrivai alle sette e mezza per la lezione delle otto e tutta la classe era lì che aspettava la ritardataria.
Così alle otto tutti in fila entrammo in aula, tutti eccetto Anne.
Su ogni lato dell'aula c'era una piccola corsia di passaggio. C'era un passaggio sul dietro dell'auala, e un altro sul lato ovest. Gli studenti non ascoltavano la mia lezione, ma guardavano tutti verso la porta. Io parlavo, tranquillo, e quando la porta si aprì, molto dolcemente e delicatmente e letamente, Anne fece il suo ingresso, con venti minuti di ritardo. Tutti gli studenti fecero uno scatto con la testa e guardarono verso di me. Videro il mio segnale per farli alzare e tutti capirono il mio linguaggio.
Per tutto il tempo che Anne impiegò per andare dalla porta opposta al fronte dell'aula, traversando tutta la parte posteriore, poi a metà del lato opposto e sedersi, in un posto della parte centrale, io le feci le riverenze. E tutta la classe, in silenzio, le fece le riverenze lungo tutto il suo tragitto. E alla fine della lezione, ci fu una selvaggia corsa all'uscita. Anne e io fummo gli ultimi a lasciare l'aula. Io presi a parlare del tempo a Detroit, o di argomenti del genere, mentre camminavamo giù per il corridoio, e intanto un usciere le fece una muta riverenza; alcuni studenti dei primi anni vennero nel corridoio e silenziosamente le fecero riverenza; il preside si fece sull'uscio del suo ufficio e, in silenzio, le fece una riverenza. Il suo segretario si fece sull'uscio e le fece una riverenza; per tutta la giornata, la povera Anne venne in silenzio riverita. Il giorno dopo era la prima della classe, e lo fu da allora in poi. Aveva sopportato i rimproveri del preside, i rimproveri di tutti i professori, ma le mute riverenze, quelle non le poteva sopportare.

3. C’è un paziente affetto da strabismo con un nome piuttosto strano: "L’ipnotista disse allora che era molto importante per quel nuovo tipo di trattamento che lui si rendesse conto del suo strabismo ogni volta che gli capitava e gli chiese quante volte aveva strabuzzato gli occhi durante la seduta fino a quel momento; il paziente non seppe rispondere. L’ipnotista sottolineò ancora quanto fosse importante che lui se ne rendesse conto; così importante, aggiunse, che era opportuno segnalargli ogni volta, richiamando così forzatamente la sua attenzione. [...] il terapista sollevò allora un altro problema: come avrebbe potuto il terapista capire che il paziente aveva notato quel segnale? Fu deciso così, dopo una breve discussione, che il paziente avrebbe risposto al segnale del terapista pronunciando il suo nome." (Jay Haley, Le strategie della psicoterapia, Sansoni, p. 97)

Ricapitolando: "la terapia direttiva pone il paziente in una situazione paradossale da cui egli non può uscire finché non abbandona la sintomatologia. Invece di aiutarlo a controllare la relazione col terapista, il sintomo, finché si presenta lo mette in una situazione di svantaggio." (Jay Haley, Le strategie della psicoterapia, Sansoni, p. 108)."

 

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